La sensazione finale che mi ha dato il rifacimento di Shadow of the colossus, avendo giocato anche la sua prima remastered per Ps3 (e qui ci ritorneremo in futuro), è stata quello di essere stato a contatto proprio con una divinità e con la primordialità atavica che comunica: sfuggente, irrisolta ma allo stesso tempo vicina all’umanità per compierne il destino. Un fato in equilibrio tra mito e realtà. Intendiamoci, non si sta parlando di un titolo perfetto, ma sicuramente la sua narrativa, e gli inserti che sfociano nel design generale, soprattutto nella parte finale, danno ragione a un artista come Fumito Ueda, capace di comunicare spinta creativa e forti emozioni.
Shadow of the colossus (da questo momento in poi Sotc per comodità) é però un titolo di principio, primordiale, seminale che si perde nella tradizione compositiva. Seguendo questa linea tracciata da chi l’ha sviluppato originariamente, da cui questo rifacimento non si discosta poi così tanto, é sensato quindi cominciare a parlarne in questa nuova puntata di Art Avenue, inserendoci nella classicità senza tempo di un’analisi che parte dalla superficie visiva per poi addentrarsi in luminosi (o oscuri?) meandri.
Come al solito vi ricordo che anche il seguente articolo sarà disseminato di varie anticipazioni, anche importanti, ergo sarebbe conveniente leggerlo solo a titolo concluso per arricchire in caso la propria visione di insieme dell’opera. Come per Super Mario Odyssey, anche qua, ci troviamo innanzi a un’opera di grandissima portata nel contenuto che, seppur non altrettanto efficace, merita il suo bel approfondimento diviso in più episodi, di cui questo pezzo, ovviamente, é solo la prima parte.
Nella speranza di incuriosirvi e magari esaltarvi, partiamo insieme, bighe alla mano, verso un mito in cui si intravede anche la realtà. Un mito favolistico per certi versi ma non per questo banale.
Un solitario cavalcare
Graficamente parlando, Sotc si presenta con un’impronta dalle texture realistiche e curate a livello prettamente tecnico in tutto. I paesaggi del gioco sono davvero bellissimi nel loro essere così giustamente aderenti alla realtà nelle superfici e abbandonati, e nel riflettere di certi luoghi di una certa abbacinante ed evocativa luce crepuscolare, direttamente mutuata ed adattata dall’originale. Un incanto offerto grazie anche a una bella camera ad ampio respiro e scevra di interfacce invadenti.
Una camera che da il meglio di se durante le lunghe cavalcate, restituendo un senso di vuotezza, spazio libero e quindi desolazione mirabile.Un aspetto, quest’ultimo, legato ovviamente a quello che presenta prettamente la narrativa del titolo, dove una delle protagoniste é proprio la terra maledetta, dimenticata e desolata che ospita i vari colossi.
In tutto ciò, però, non é facile ammettere come tanta beltà sia un po’ rovinata da come sono delineati alcuni personaggi del gioco, tra l’altro i più importanti come Wander e Mono. Gli stessi infatti pur essendo connessi all’ambiente con lo stesso tipo di texture, risultano un po’ avulsi, quando li si guarda, da quello che li circonda. Il problema si pone nello specifico, purtroppo, per una questione di confronto con il reale, in quanto le texture puntano proprio verso il realismo abbondantemente, favorendo un rimando diretto alla nostra realtà
La maggior parte dei videogiocatori dovrebbe avere un’idea da cartolina non curante dei particolari, quando pensa alla campagna e ai luoghi a cui il gioco fa riferimento, visto che passa gran parte della propria vita in città. In questo ambito, dunque non dovrebbe essere necessario per la godibilità generale spulciare i particolari delle texture di Sotc, avendo un certo tipo di schema in testa. Schema questo, ahimè, che si dovrebbe opporre per gli stessi gamers all’osservazione degli altri esseri umani nella realtà da riversare poi nel titolo.
Una realtà a cui sono sottoposti da ogni angolazione e distanza ogni giorno e di cui é normale notarne anche i particolari in una visione totale. Questo secondo schema nelle texture dei personaggi non é erroneamente rappresentato in questo rifacimento, glissando, per esempio, sul reticolato bucherellato della pelle, e restituendo all’occhio un aspetto plastificato e un po’ avulso rispetto al resto.
Ingenuamente, questo particolare é fatto balzare all’occhio ancora di più dallo stile da fumetto e da cartone animato giapponese dei due amanti (?), che ovviamente rimanda a qualcosa di più idealizzato e meno reale, suggerendo le mancanze delle texture (la faccia anime di Mono, per esempio). Lo stesso problema, infatti, indicando altre figure della narrazione, non é presente nel sacerdote Emon, caratterizzato da tratti facciali molto più realistici, su cui ci si concentra, facendo sparire ogni tipo di attenzione e collegamento alla cura delle texture della pelle.
Sarebbe inutile invece citare i colossi in questo senso, anche se per un pezzo del genere risulta utile, per avere un quadro completo della sezione, spenderci almeno due righe. Si ha nella fattispecie, ordunque, dei mostroni che presentano superfici scure nelle zone glabre del corpo, che occultano un eventuale e inesistente reticolato della pelle, integrato da zone ossee, pietrose e da armature che ovviamente risultano anche nella realtà come totalmente lisce, non bucherellate e coerenti.
Gli stessi colossi operano nelle zone in zone non richiedenti un’attenzione oculare molto particolareggiata, tra vari paesaggi da cartolina, in gran parte dei casi inquadrati da una camera molto larga che non lascia molto il fianco al particolare, facendoli essere integrati bene. In questo ultimo caso, quindi, il problema non si pone completamente, e ci si può godere lo spettacolo senza titubanze alcune, in maniera totalmente fluida e senza incertezze date da stranezze visive se non la presenza di Wander in piccola parte.
In presenza di questi problemi probabilmente sarebbe stato molto più utile rivoluzionare la grafica del gioco con uno stile particolare, magari in cel shading visti i toni mitici, ombrosi e favolistici che gli gravitano attorno, con contorni, inserti e riempitivi dalle tinte brune nelle varie strutture e nei personaggi.
Volendo varare una seconda opzione, meno impegnativa del creare uno stile artistico caratteristico, si sarebbero potuti rendere più realistici i personaggi dei due innamorati (?) nel design, anche se sicuramente sarebbe stato un grandissimo rischio data la community conservativa che si ritrova Sony. Community che probabilmente non avrebbe apprezzato una possibile rielaborazione più realistica, ripudiandoli.
Si potrebbe cercare di riempire questi difetti grafici purtroppo evidenti e un po’ fastidiosi, visto che con Wander e Mono ci abbiamo a che fare per tutto l’arco narrativo, tramite le tematiche non troppo manichee del titolo, dove bene e male si mischiano, lasciando spazio quindi anche a un miscuglio tra design dei personaggi e texture realistiche nel solco della spinta ad omogeneizzare e sfumare. L’integrazione, a mio avviso non riesce, però, visto che é molto più presente un senso commerciale nella ristrutturazione grafica realistica e figa per adolescenti, legata solo alla motivazione di accontentare l’utenza in maniera didascalica.
Cercando di fare un parallelismo con l’ultimo titolo sfornato da Ueda, The Last guardian, le differenze sono sensibili. Questo confronto serve infatti proprio per far capire la differenza che ci sarebbe stata se la riproposizione dell’avventura dell’ Errante fosse stata curata direttamente da Ueda e non da degli onesti artigiani.
Nello specifico, il Ragazzino che si accompagna al grifone Trico presenta un aspetto soffice, praticamente in cel shading, che ne restituisce tutto il candore della innocenza emotiva e della fragilità tipica nell’archetipo di un bambino con animazioni un pò incespicanti annesse. Dal canto suo l’aspetto decisamente più misto della creatura parla di un animale molto forte, potente e sovrastante ma anche di una docile e amorevole creatura domestica quando scuote il pelo o esegue o non esegue gli ordini anche in maniera un po’ goffa.
Il misto tra sofficità domestica e dura potenza di Trico risulta quindi la chiave, il ponte. per il ragazzo. Passpartout con il quale interagisce con l’ambiente circostante, totalmente duro nelle sue strutture di pietra solide, dalle texture realistiche e prive di emotività pur essendo evocative, in quanto in generale non vive. Il suo esatto contrario in tutto, quindi. Senza contare che l’escalation in ordine di durezza generale é infine suggellata dal fatto che si passa da un essere molto piccolo a uno decisamente più grande, fino ad arrivare a un ambiente immenso. In maniera ordinata e quasi puntuale.
Sacra umana evolutiva
Dall’ordine sviluppato tra Trico, il Ragazzo e l’ambiente in Tlg, si ritorna all’oggetto primario del nostro interesse, mettendo insieme quindi la successione concettuale e i vari colossi per vedere come si sia adoperato Ueda in questo ambito. Lasciando perdere il corrispettivo tra grande in pietra e piccolo animale, già trattato da altre parti é veritiero, il risultato, a un’attenta analisi, é apprezzabile anche se non troppo fluido e fa capire come l’autore originale sia stato abbastanza padrone della sua opera, anche se non in maniera totale per via di certe imperfezioni strutturali che marcano la differenza tra bel gioco e capolavoro.
Ritengo che, constatato come i contenuti di Sotc siano incentrati sullo scandagliare il sentimento e altri temi inerenti all’umanità in linea generale, sia giusto partire in questa analisi della composizione artistica visiva dei possenti colossi. E nello specifico da tutti quelli che ricalcano fattezze umanoidi o simili.
E’ giusto precisare, inoltre, che le terminologie greche, latine, o provenienti da altre culture, sono miscelate e collegate insieme per fonetica, storia e cultura in modo da compattarsi il più possibile tra di loro, cercando di formare una continuità omogenea a livello contenutistico. Inoltre queste terminologie che confluiscono nel latino in un’opera mitica dalle architetture e bestiario “europeo” in larghissima parte, a livello di forma fonetica, rendono questa lingua antica un perfetto contenitore di varie influenze. Tutto ciò é dato dal fatto che la stessa, oltre che narrare miti e leggende, si è espansa praticamente per tutta Europa e oltre ai tempi dell’impero romano inglobando varie civiltà in sé.
Sotc si sviluppa nell’ambito dalla doppiezza: uomo e donna generano il viaggio e interpellano Dormin. Dormin e Wander, divinità e uomo, “attivano” i colossi. A loro volta i colossi sono uniti in un macro gruppo ma divisi in categorie particolari e così via. Questa doppiezza é resa metaforicamente sotto forma di coppia che genera qualcosa tramite il fatto che ogni creatura generata da ogni singolo abbinamento, ne possiede le caratteristiche di entrambi i personaggi che l’hanno formata. Peculiarità che ovviamente risultano miscelate assieme per creare qualcosa di nuovo e allo stesso tempo ereditario.
Ma iniziamo a parlarne specificatamente. Il patto stipulato dalla luce divina di Dormin situata sopra l’altare del tempio e hub principale, porta all’atto praticamente della “creazione” o “attivazione” dei tanti mostruosi avversari. Dall’incontro dei due “nasce” Valus, il primo colosso. Potrebbe essere esatto dire che il minotauro in questione trovi ispirazione nel mito greco che lo coinvolge speciosamente come creatura. Un mito dove lo stesso, rinchiuso nel labirinto di Cnosso, fu il risultato dell’unione tra la moglie del regnante Minosse, Pasifae, e un magnifico toro bianco.
Questa deduzione arriva dal fatto che l’aspetto finale di Dormin é quello di una creatura fumosa, bestiale, dotata di corna, che rimanda a un aspetto taurino almeno nella parte superiore, mentre quello di Wander, totalmente umano, risulta speciosamente androgino nel suo essere dotato di fisico longilineo, di una sorta di cerchietto che ne adorna dei capelli a mezzo collo e infine di gonnellino. Non poteva che uscirne fuori un essere bipede, umanoide, con una strana epidermide, a rigor di logica. E così, a quanto pare, é stato fatto.
Integrato a tutto ciò, ovviamente, é presente anche la traslazione di un’arma da brandire, che se nell’eroe é una spada, nel mostro é una clava/mazza perché lo stesso Dormin nella sua forma completa, sprovvisto di qualunque arma, fa regredire tecnologicamente la lama nell’accoppiamento con l’eroe. In un certo qual modo, quindi, é giusto che il primo nemico da affrontare sia proprio un minotauro, come specchio logico di entrambi i personaggi, e che questo patto porti alla “creazione” anche degli altri colossi umanoidi, visto che il nostro errante stringe sia un patto con Dormin, ma anche con tutti gli altri frammentii di cui é composto.
Il nome Valus viene dall’estone ma riflette una fonetica latino-greca per conformità al resto dei nomi dei colossi dalla forma umana , oltre a connettersi probabilmente all’aspetto nordico delle Terre Proibite per gran parte della mappa. Vallatte enormi che si esplicano in una steppa connessa apertamente a livello ambientale, rispetto ad altre location, anche al luogo d’azione del primo colosso per conferire al gigante un’ulteriore concezione barbara, dato il suo outfit. Una concezione che si intensifica quando si parla del significato di Valus, ovvero “doloroso”, che é perfetto per l’iconografia animalesca e sprezzante dei popoli barbari.
Anche se é vero che rappresenta un minotauro, però, il primo avversario del viaggio, allo stesso tempo, ha in mano la già citata clava. Arma d’offesa che si collega ulteriormente al suo essere umanoide ma con un volto animalesco.
Tutto ciò riconduce alla percezione di avere a che fare tra l’altro con un uomo primitivo, oltre che ovviamente un barbaro, che in un gioco che ruota su tematiche umane evoluzionistiche, e associazionistiche coerenti nell’ambito, come vedremo qui e nella prossima puntata, é giustificabile. La condizione di primitivo, infine, non fa che intensificare la giustezza di primo nemico da affrontare del mezzo toro in maniera soddisfacente e puntuale, inquanto il primitivo é il ceppo iniziale di tutta l’umanità.
Dallo sconfitto “uomo delle caverne”, a questo punto, ne arriva la diretta evoluzione con Gaius, fusione tra Wander e il minotauro, dal volto umano ma stilizzato. Il nome Gaius potrebbe derivare dalla famosissima uccisione di Gaio Giulio Cesare, accoltellato durante una congiura e il nome completo latino del colosso (Terrestris veritas) presenta l’attaccamento alla verità tramite la spada, che porta giustizia in terra, tipica dell’iconografia di un cavaliere.
In questo senso, quindi, la presenza di armi da taglio che corrispondono al nome Gaius e l’essere un cavaliere in se del colosso é inerente nella sua conformazione fisica. Cesare venne a contatto con delle lame che lo trafissero e un cavaliere, così come il nostro, brandisce una lama, oltre ad essere ucciso dall’arma bianca di Wander. Un’ ulteriore compattazione di questi elementi arriva dal fatto, infine, che il personaggio del proto imperatore che quello del cavaliere sono entrambi collegati alla lingua latina per periodo storico.
Interessante risulta, tra l’altro, il luogo di battaglia che ospita Gaius, ben contestualizzato, evoluto rispetto a quello del predecessore, in linea con il personaggio e per nulla invadente. La sua forma, levigata nella pietra e lampantemente artificiale rispetto alla natura incontaminata della prima boss fight, ricorda la tavola rotonda, archetipo cavalleresco di cui un cavaliere medievale che si rispetti non può fare ovviamente a meno.
La combinazione tra l’eroe e il primo nemico porta a un vero e proprio “Orlando furioso” evoluto nell’intelligenza e dal volto “umano” che presenta, come in parte anticipato, una spada come il protagonista, sempre sul braccio destro, come l’arma del suo diretto predecessore, ma questa volta integrata e senza mano. Particolare che serve probabilmente a ricalcare il fatto storico che l’uomo si é sempre più servito, dalla scoperta degli utensili nell’età primitiva al medioevo trattato, di armi varie per poter limitare le sconfitte capendone intelligentemente il potenziale. Una comprensione tanto forte nel tempo da far diventare gli oggetti di offesa, raffinandoli, una vera e propria estensione di se.
L’intelletto superiore di questo nuovo colosso, a cui si affida totalmente, per l’appunto, e rappresentato dall’evoluzione in se dell’arma, che si esplica dettagliatamente non solo nel fatto che sia capace di danneggiare il nemico, ma anche di tenerlo contemporaneamente più a debita distanza dai punti deboli rispetto alla clava del passato.
A questo punto da Valus e Gaius succede Barba, che possiede un nome che proviene sempre dal latino, e che guardadolo nel suo design, non ha bisogno di alcuna spiegazione. Il nuovo gigante ne é il naturale prodotto di entrambi: un umanoide vecchio riconoscibile dalla sua peluria bianca e la folta barba tipica dell’anziano saggio, e un volto con in evidenza un teschio animale per il muso che gli conferisce un aspetto emaciato.
Un muso adornato da orecchie caprine che ovviamente é molto vicino alla vecchiaia, il passo prima della morte. Il nome latino esteso, Belua Maximus, sottolinea il punto di arrivo evolutivo di questa creatura nella evoluzione della specie dei colossi umanoidi, prima della morte o del ritiro ascetico che decreta la scomparsa di avversari simili per molti incontri successivi.
Il colosso in oggetto, dopo la scoperta, sviluppo e uso delle armi da parte dei suoi sconfitti antenati tramite lo sfruttamento intensivo dell’intelligenza, ha imparato con saggezza dai suoi errori e contemporaneamente da quelli dei predecessori (visto che in realtà é solo un sedicesimo dell’entità Dormin, come se fosse collegato spiritualmente a tutti gli altri. Così come i restanti colossi, del resto.). Si libera quindi del potere materiale dell’intelligenza che ha tradito più volte i suoi “padri” per poter combattere con le sole nude mani, con le sue sole forze e con il precetto delle esperienze passate.
Si tratta quindi della incarnazione della consapevolezza data dall’esperienza scaturita da più fallimenti, che si identifica nei moniti della saggezza dei vecchi, che sanno che per sopravvivere é importante dare solo se stessi con emotività rivelata appieno, evitando sistematicamente situazioni che sono state spiacevoli a più riprese, che in giovinezza erano state affrontate più volte, senza risultati, tramite l’intelligenza.
La saggezza del colosso deriva dunque dal fatto che nel suo sferrare pugni non lasci alla mercé avversaria dei punti deboli con Wander in bella vista, rispetto a chi é venuto prima di lui, scoprendosi solo nel caso in cui la situazione di attacco diretto cambia in indiretto (nascondersi dietro le colonne per sparire apparentemente). Dinamica in cui da parte del gigante c’é pur sempre una ispezione non però strategica e intelligente, visto che non mostra alcun tipo di tattica, ma solo un normale e diffuso e pieno gesto emotivo di controllo, come nei gatti, per esempio, per paura di quello che sta succedendo di nuovo, a cui non é stato preparato tramite il passato.
Il terreno di scontro in cui si affronta questo gigante, inoltre, é decisamente in linea con le sue peculiarità. Il posto é nascosto, un sotterraneo, in linea con il fatto che i vecchietti, per le poche energie, fanno una vita più casalinga notoriamente e più ritirata dal pubblico e dalla vita sociale. Una sorta di casa di riposo, se si vuole essere taglienti. Inoltre, nascondendosi, visto che si tratta di un luogo architettonicamente evoluto rispetto alla tavola rotonda di poco sopra, Barba si dimostra un po’ un pesce fuor d’acqua nell’interazione con la novità strutturale, come nell’archetipo dei vecchietti, non corrispondente alla sua saggezza e quindi all’esperienza passata, esponendosi solo emotivamente a dei pericoli quando scruta le colonne in cerca di Wander.
Da Gaius al nostro vecchietto, quindi, dopo una naturale assenza prolungata di boss umanoidi, dovuta all’ennesima sconfitta, che identifica la morte dopo la vecchiaia, ma anche il ritiro ascetico, che é lontano e prolungato per antonomasia dalle luci del protagonismo, e favorisce un aspetto trasandato, magari con una lunga barba, arriva Argus.
Il nome Argus é molto probabile derivi dal mitico carpentiere Argo di Tespi, che costruì la sfaccettata nave omonima in cui si imbarcano gli argonauti guidati da Giasone per perseguire una grande avventura presso le Colchidi e altri luoghi. Trasportato e adattato sul colosso, Argus infatti é un tipo che riesce ad adattare il suo stile di combattimento in maniera diversificata in base alla situazione, spunta da un baratro in cui é presente uno specchio d’acqua ed é a contatto pienamente interattivo, distruggendole, con opere legate a un carpentiere come colonne o ponti, che non essendo umano, ma un mostro, invece di costruire nell’eventualità, distrugge per avere la meglio sul nemico, sapendo perfettamente come rapportarvisi al suo passaggio nelle stesse.
Il nuovo colosso bipede rimette in gioco l’intelligenza, ma questa volta integrata alla saggezza. Come per i due predecessori, questa nuova enormità é un miscuglio tra due “padri”. L’intelligenza e la voglia di utilizzare mezzi utili e raffinati di Gaius, mischiata alla saggezza di Barba.
Da questa combinazione scaturisce un essere dal volto scimmiesco ma non più allungato e sottolineante l’equilibrio tra ragione ed emozione, intelligenza e saggezza, che maneggia un’arma raffinata ma non più fusa al braccio che ne rispecchia le qualità versatili universali dell’evoluzione mortale umana.
Se infatti in un primo momento, Argus combatte con una spada, che risulta l’emblema dell’avanzamento tecnologico e intellettivo di Gaius rispetto a Valus, non si farà problemi, una volta persa, ad attaccare Wander a pugni mostrando come una lama non fusa alla mano, saggiamente, sia utilissima per liberare quella mano che in precedenza, fallendo, era costretta a una sola azione. Metodo quest’ultimo che rispecchia, quindi, la saggezza del gigante canuto rispetto a quello che era accaduto in precedenza.
Una versatilità di approccio che viene racchiusa in un corpo giovane, giustamente, perchè chi conosce tutto il mondo e si adatta alle situazioni che offre, anticipando i problemi nuovi ed evitando i vecchi, come il colosso, trova nuovo vigore di volta in volta per combattere e rimanere quindi giovanile. Un leitmotiv quasi darwiniano, una rinascita ripetuta, diciamo che si incarna nel suddetto corpo.
Il luogo in cui opera il colosso é una città vera e propria, con i suoi ponti, strutture e colonnati che come per i precedenti avversari ne ricalcano le caratteristiche distintive. Argus, il guardiano protettore, forse del picco dell’umanità terrena stessa, quindi, sa perfettamente, contrariamente, a chi lo ha preceduto, come muoversi nel suo ambiente, da buon carpentiere che conosce il posto, in quanto suo costruttore, demolendo tutto con tempismo e astuzia.
Dal misto di intelligenza e saggezza che sfocia nell’adattabilità di Argus, uniti all’ascetismo di Barba, che ricorda la spiritualità dei monaci tibetani, nasce quindi il trascendente Malus, un vero e proprio dio terreno, incarnato in un incontro mistico tra oriente e occidente tramite il suo “vestiario”. Un abbigliamento, diciamo così, che ricorda un religioso dell’estremo oriente e allo stesso tempo la mitica torre di Babele biblica, connessa al titolo tramite la presenza di Dormin (riferimento al biblico Nimrod) e le tante sfide da affrontare per “salire di livello” e accedere alla ricompensa. Sfide che si condensano in questo ultimo caso in un’unica scalata su più livelli e impalcature. Non a caso, dunque, il suo nome esteso é Grandis supernus: grande santuario.
Malus rappresenta l’inizio dell’ascesa al mondo non tangibile, divino, dell’uomo. Sfrutta quindi, in maniera trascendentale, intelligentemente divina, la materia, come se generasse miracoli di volta in volta, lanciando vere e proprie palle di fuoco contro il nemico e allo stesso tempo, rimane saggiamente fermo in un punto, contrariamente ai suoi predecessori, che muovendosi non sono mai riusciti ad averla vinta, attaccando in maniera terribilmente distruttiva e precisa, da molto lontano.
Un dio dal volto decisamente umano (in diretta evoluzione) legato alla terra, ad attacchi elementali di fuoco che gli permea anche e braccia, che giustamente ha ancora una costituzione del corpo terrena, in parte metallica e in parte organica. L’aspetto demoniaco legato al fuoco e alle corna e al suo nome, sono il risultato della grande mole di cattiveria accumulata tramite il rancore da tutti i suoi predecessori per essere stati di volta in volta sconfitti, che insieme alle pratiche ascetiche hanno dato frutto a una divinità demoniaca.
Il luogo di questa consueta boss fight é un esteso “dedalo sotterraneo”, ingegneristicamente il migliore, il più evoluto e articolato di tutti gli altri, a sottolineare un ulteriore passo evolutivo in avanti di cui il colosso é portavoce. Questo gli permette, nella sua grandezza molto ampia, di avere un margine di tempo abbondante per poter fare fuori il nemico tramite i suoi devastanti attacchi a distanza siderale.
A questo punto con lo sblocco di tutti i sedici colossi, e con l’aggravante della malignità dei suoi predecessori intrisa in Malus, Wander ovviamente si unisce a loro, ricalcando la doppiezza dell’ umano che si unisce all’inumano, al demoniaco, e diventa l’ospite ideale per far rinascere la maligna (?) entità di Dormin. Un’entità che ospita al contrario di chi l’ha preceduto, tutte le caratteristiche animali e umane di ogni parte che lo compone, invece che parziali e presenta un corpo fatto di un vapore oscuro come già detto, invece che di “carne” e altri elementi terreni. Una chiusura ben fatta in questo senso, che dona a tutti i colossi umanoidi una circolarità definita e specifica o quasi.
Quel “quasi” é figlio del lecito tassellino legato del finale del gioco, che praticamente chiude davvero cerchio in questo paragrafo ma che ho deciso di rimandare alla prossima puntata per motivi di ordine esplicativo e per gusto del thrilling, Una scelta decisamente più confortevole che terrà, come spero, voi sulle spine e a me la soddisfazione di chiudere questa prima parte con un colpo di teatro. Non ve lo aspettavate? Beh, ma all’uscita dell’originale Shadow of the colossus e all’annuncio di questo rifacimento, chi invero si aspettava delle operazioni ludiche così?