La guerra é cambiata. God of War é cambiato. Perché utilizzare questa frase proveniente da un altro brand come Metal Gear Solid, il quarto capitolo per la precisione, per descrivere la possibile apertura verso una nuova epopea per l’amato Kratos? Beh, fondamentalmente si tratta di due brand molto amati dal pubblico, che hanno preso sempre voti altisonanti, che hanno la guerra in comune.
Inoltre effettivamente come nel quarto capitolo della saga del Serpente dei videogiochi qualcosa é cambiato, e infine il director Cory Balrog é nato come Hideo Kojima nel mese di settembre. Insomma, tante cose in comune per una citazione che ci stava a pennello per aprire un discorso approfondito per quanto riguarda il sequel-reboot della saga di Santa Monica Studio, di cui effettivamente c’é molto di cui discutere.
Come sempre, come avviene nella rubrica, l’arte in un videogioco, in quanto tale viene visualizzata a tutto tondo e può venire da qualsiasi caratteristica, dai tecnicismi al gameplay ma, per far capire tutto quello che si vuole dire, c’é bisogno di ordine. Sembra un controsenso quando si parla di God of War, dove il casotto é all’ordine del giorno, ma mai quanto in passato é necessario analizzare il gioco con perentoria e chirurgica precisione, visto che ci si inerpicherà in una disamina quantomai delicata.
L’inizio di un’epopea di granito
God of War é nato per il 4k e l’HDR, poco da dire: la saturazione di colore offerta dall’opzione grafica, per chi ha un televisore adatto, riempie ambienti e modelli in maniera perfetta, tanto da persuadere il videogiocatore a stazionare su questo livello di dettaglio del colore e della risoluzione (2160p). La pienezza di colore offerta dalla modalità HDR viene commutata, se applicata ad un’immagine 3d, addirittura con risoluzione 4k, di un videogioco, dall’occhio umano, in ulteriore spessore poligonale. D’altra parte i due elementi si sposano perfettamente, visto che il poligono dà l’illusione, con i suoi modelli tridimensionali, di un solido, ovviamente pieno, e i colori forti della seconda opzione offerta si accodano all’essenza colma dei primi per un risultato decisamente d’avanguardia, affascinante, di sicura presa.
Ritornare indietro, insomma, una volta provato, svuoterebbe ovviamente il colore, facendo apparire le immagini più piatte e con meno mordente.
L’illusione come colore che diventa tridimensinale in game deriva, per esempio, nella vita normale, tra gli altri, dall’utilizzo delle matite su un foglio di carta.
Se si preme delicatamente su un foglio bianco con un rosso, allora spargiamo sullo stesso poca grafite che lo inspessisce poco e il colore sarà delicato e poco intenso.
Se si ripassa però la stessa matita sullo stesso punto, allora alla grafite colorata già presente se ne aggiungerà dell’altra inspessendo ancora la superficie (che diventa ancora più 3d) già colorata del foglio, facendo risultare il rosso più vivo e ancora più confacente ad ambienti con asse x, y e z.
Aggiunta del colore, e ripetizione della stessa azione sullo stesso punto del foglio con la matita porta quindi alla tridimensionalità del colore che più é tridimensionale e più é intenso. Lo stesso processo tecnico praticamente avviene anche con del vino in una bottiglia o con la semplice coca cola versata in un bicchiere come gesto quotidiano che fissa le regole del colore da trasportare poi in un videogame.
Le poche aggiunte di liquido mentre si versa la bevanda di volta in volta nel bicchiere sono sicuramente meno intense nella colorazione. Le stesse aggiunte sommandosi infine all’interno del bicchiere aumentano lo spessore/volume e all’occhio risulta un cromatismo decisamente più forte. Provate a guardare inoltre il fondo di una bottiglia di vino/coca quando é a 2/5 dalla fine e vedrete che ancora il colore della bevanda é scuro come la pece, e poi guardatela quando la stessa é quasi finita e vedrete che i colori si saranno attenuati. Semplice somma, semplice ripetizione di ulteriore colore che si aggiunge a dell’altro: tridimensionalità e intensità del colore crescente vanno di pari passo, quindi.
Certamente il colore stesso ha un limite di saturazione oltre al quale anche se si aggiunge del liquido, la colorazione non diventa ancora più corposa e intensa, per esempio, ma lo schema é quello sopra citato, senza colpo ferire.
Ovviamente questa non é una lezione sul colore, ma addentrarsi per la prima volta nella questione della saturazione nel 4k dei cromatismi in una rubrica di approfondimento che parla di arte, richiamava fortemente una spiegazione sufficientemente dettagliata all’utenza in modo tale che riesca a godere in perfetta coscienza di quella fantastica opzione che é l’HDR, magari riuscendo ad esaltarla ancora di più ai propri occhi e ovviamente a godersela di più.
Inoltre, filosoficamente e per godere meglio di un gioco che parla di brutalità e sbudellamenti, ipertrofia muscolare nelle sue sessioni di gameplay, facendo sentire il pieno materico praticamente sotto mano tramite la carne e i liquidi che ne scaturiscono (la forza intensa dell’arancione non manca mai e il rosso fa i giusti capolini), sembra quasi un obbligo per poterselo assaporare bene, in maniera il più immersiva possibile, approfittando di tutto quello che l’avanguardia televisiva mette a disposizione in questo senso.
Particolarmente ben fatti in tutto ciò, sempre in tema di colori, soprattutto risultano di vari abbinamenti negli ambienti. L’acqua rifulge e rispecchia perfettamente in più sessioni, per esempio, in maniera omogenea, vari cromatismi che mettono insieme l’oro di certe strutture nordiche, artificiali e culturali con i marroni e i campi boschivi o muschiati delle bellezze naturali da cui nascono certi fiori di colore viola o azzurro. Colori che stanno insieme, tra l’artificiale e il naturale tramite il legame della brillantezza, vivacità e lucentezza che emanano, dunque. Insomma, azzardo e coerenza che vanno sicuramente premiati con un plauso e che ricalcano la potenza tramite lo sfarzo delle divinità di Asgard.
Perché sfarzo? Beh, perché i colori brillanti sono simbolo di qualcosa di prezioso come l’oro o varie gemme colorate, ergo richiamano lo sfarzo senza alcun tipo di problema, che a sua volta richiama anche la grande potenza di queste divinità.
Il tutto, per chiudere la sezione, é condito da un 30 fps che, se non risulta proprio fisso (chi ha detto granitico?) scendendo anche a 25fps (ma il limite del verosimile é fisso a 24, quindi nessun allarme scatto) non dà alcun tipo di problema di credibilità nella fluidità del movimento, non va sull’altalena come in modalità performance, e dunque non disturba (anche se il sottoscritto vorrebbe capire a cosa serve il 60fps che dà una consistenza di burro e un po’ troppo “veloce” a dei personaggi con movimenti umanoidi normali, se non per una necessità artistica personale, magari interpretata come esigenza di realismo, che con la realtà e credibilità non c’entra molto).
In tema di movimento non é neanche da sottovalutare il più che buono motion capture, e l’ottimo reparto animazioni in linea generale, che fa apparire i movimenti fisici del corpo molto naturali e le emozioni più che credibili nel volto dei personaggi, come l’emotività bloccata del protagonista o il pentimento del figlio Atreus quando uccide degli esseri umani.
Insomma, il buon Kratos si fa forza benissimo con il 4k hdr a 30fps, e l’emozionalità artistica che ne scaturisce deriva proprio dal non averlo mai visto così credibile, vivo, solido, imponente come il resto degli ambienti e personaggi che sono stati molto curati in sede produttiva, anche se fino a un certo punto, come il prossimo paragrafo spiegherà approfonditamente, che sfugge alle regole di questa opzione per veri e propri limiti tecnici o degli errori di valutazione.
Recinti per avventurieri tinti
Ovviamente, da come si deduce da quanto detto, i modelli e gli ambienti sono curati poligonalmente e a livello di colori in maniera impeccabile per quanto riguarda la profondità di campo che arriva approssimativamente fino alla media distanza; e si vede proprio che é stata posta un’attenzione certosina per restituire il massimo restituibile a livello di mera ricchezza dell’immagine. In questo senso, però tutto ha un prezzo, soprattutto sull’hardware di una PS4, seppur di modello Pro e quando anche giochi come Horizon hanno settato nuovi impressionanti standard in questo senso. E non esiste 4k o HDR che tengano.
Infatti guardando oltre il già citato medio raggio, che in alcuni casi, soprattutto nella seconda parte del titolo diventa anche medio-lungo, la profondità di campo che va oltre risulta praticamente troppo piatta, troppo poco curata, senza alcun movimento ambientale e sfalsata rispetto al resto, nonostante siano stati aggiunti tutti gli effetti atmosferici ed escamotage del caso per ripianare a un certo dislivello di resa e omogeneità dell’immagine: come grandi coperture rocciose che fanno vedere solo piccoli scorci di quello che c’é all’orizzonte .
La sensazione generale, insomma, é che il mondo norreno si blocchi in profondità nell’orticello non troppo distante dove tutto é curato fino all’inverosimile, facendo apparire in resto di quello che si scorge oltre come uno sfondo posticcio. Una specie di cielo di carta, volendo, come quello che si attacca sopra i presepi natalizi per conferirgli una certa atmosfera in assenza di altri artifici più costosi, laboriosi e che richiedono molto tempo per essere realizzati, oltre a un certo ingegno.
In tema dunque risulta lo spiegare come si comporta la percezione visiva nell’ambito di un oggetto visualizzato da diverse distanze per il classico scrupolo critico che tanto attanaglia. Scendendo nei dettagli, per esempio, perdendosi ad osservare un orizzonte marittimo, caraibico magari, non si cerca istintivamente nella realtà il dettaglio perché la superficie dell’acqua, dalla breve, media e lunga distanza, appare grossomodo tutta uguale nella sua scarsezza di particolari.
Trasportando il tutto in un videogioco, questa omogeneità di dettaglio da tutte le distanze permette quindi di replicare, dando senso di realtà anche nelle lunghe distanze e di immersione, lo specchio d’acqua nella sua pochezza compositiva. Una povertà che permette, volendo, di abbassare il dettaglio nelle parti più lontane senza che queste risultino falsate, danneggiando il senso di profondità, visto che lo stacco di accuratezza dei particolari risulta davvero minimo.
Con le montagne, la terra, e i rilievi rocciosi, ovviamente, é un discorso diverso perché si tratta di una scalatura del dettaglio di ambienti complessissimi che rimangono anche a grandi distanze abbastanza complessi. Ergo se anche risulta vero che questi da lontano appaiono naturalmente meno dettagliati all’occhio, non bisogna esagerare nello scalarli facendo propriamente avvertire solo qualcosa di troppo abbozzato in estrema lontananza in relazione anche a quello che si ha vicino, decurtando il senso di profondità in modo evidente, falsandolo magari.
Tra rilievi, e zone presumibilmente ricoperte di neve o altro, che dovrebbero essere decisamente più dettagliate, anche nelle sfumature di colore, oltre a presentare qualche movimento in lontananza, God of War pecca e guardarsi intorno fa sembrare tutto poco equilibrato e omogeneo tra parte più curata e dettagliata e quella meno curata.
Parlando però di sfondo, sicuramente l’effetto profondità esatto mancante influenza anche un altro aspetto della costruzione scenica. God of War é un gioco fondamentalmente in gran parte disegnato a corridoi in modo lineare con qualche divagazione open world qua e là. L’avere uno sfondo che risulta fittizio e non troppo coerente, spesso molte zone ristrette affiancate da alti muri rocciosi o costruzioni varie invalicabili, una camera molto ravvicinata e a volte troppi elementi scenici su uno stesso scenario, producono un “effetto serra da piante” non propriamente soddisfacente. Insoddisfacente soprattutto con quello che é il contesto di un’avventura selvaggia e formativa nel mito norreno.
Senza contare, ovviamente, della mancanza a fasi alterne, di spazio vitale tra i vari elementi in gioco che producono più volte una sensazione di ingolfamento inopportuno dell’immagine. In architettura, lo spazio vitale é quello spazio libero che serve a ogni elemento per poter essere armonioso con l’ambiente.
Se si ha presente di quanto poco spazio vitale ha il duomo gotico di Milano oggi come oggi, per l’appunto del capoluogo lombardo, si può facilmente capire come sono ingolfate e con poca area libera armoniosa a disposizione certe zone del titolo di Santa Monica. L’arte é armonia e diciamo che proprio in questo caso la distanza dal risultato migliore esiste eccome.
Fortunatamente però l’avventura dal secondo terzo, dalla metà, acquista un respiro ambientale decisamente più ampio, nonostante permanga la sensazione di essere recintati un po’ dappertutto, facendo godere di più il giocatore di quello spazio che gli é mancato tramite dei più insistiti corridoi, anche in profondità. Il tutto condito in maniera più convincente da qualche montagna davvero in lontananza che pur non essendo fantastica, risulta quantomeno mediocre da vedere in relazione al dettaglio ammirabile da più vicino.
Qualcuno in fondo a questo paragrafo sicuramente si chiederà perché é preferibile sempre il 4k hdr visto che di fatto, e non lo si nega, con questa opzione le immagini sullo sfondo del gioco non migliorano tecnicamente, contrariamente a quelle più vicine e molto più curate, accentuando il dislivello qualitativo tra quello che é più vicino e quello che é più lontano.
La risposta é molto semplice: il 4k HDR é talmente devastante in tutto quello che si vede come resa tridimensionale dell’immagine e vivacità, da far accettare di scegliere questa opzione comunque nonostante il dislivello qualitativo con lo sfondo aumenti. Anzi, si sarà talmente ipnotizzati da tutto quello che é stato costruito in maniera maniacale con l’HDR attivo da ridurre il peso di quello che è di qualità nettamente inferiore a livello di resa visiva anche se non tanto da farlo risultare un problema trascurabile. Se l’errore non si é portati a guardarlo spesso non pesa troppo nell’economia generale di quello che si vede, no?
Il contrario avviene invece con il semplice 4k, dove l’immagine più svuotata di colore e meno attraente porta ad avere più attenzione per gli sfondi poco curati, restituendo un contrasto più forte della poca omogeneità tra elementi più vicini e più lontani.
Una domanda però rimane irrisolta nella mente, probabilmente: God of War ha avuto davvero tanti anni di sviluppo per poter raggiungere pure con spazi ristretti rispetto a un Horizon davvero una buona grafica anche in profondità e il risultato in questo senso non é molto soddisfacente, come documentano le immagini. Che si sia voluto eccedere forse un po’ troppo con altri contenuti? Francamente la trama principale poteva benissimo risolversi anche con 10 ore in meno di materiale e tante opzioni e feature sono un mero ammennicolo non troppo utile, come vedremo in seguito. La risposta, probabilmente é da attribuire ad un errore di valutazione.
Tra nostalgia e dilemma divino
Avevi ragione tu, mia cara, la vita non dura mai, una sera… Il tempo di una follia che breve poi fugge via. E poi cosa rimane dentro noi? Questa celeste nostalgia. Questo saperti da sempre ancora mia… Durante la sequenza iniziale in cui Kratos tocca un albero, con il viso scavato e triste, a cui seguirà subito dopo il funerale della sua amata, sembra proprio seguire i lembi di questa canzone di Cocciante nella sua mente, comunicando già una certa emozione, celata, un dolore per quello che é stato e che però é sempre presente, legato alla propria compagna.
L’interpretazione dei personaggi tramite il motion capture e il movimento della camera in piano sequenza per seguire una vicenda molto ravvicinata come piano visivo, senza stacchi, simulando la vita vera (noi viviamo in un grande piano sequenza), impressiona davvero a livello narrativo.
Anche quando, in certe sequenze, il piccolo Atreus viene rapito, o quando lo stesso Kratos cerca di abbracciare il figlio, non riuscendoci, si cerca di insistere sempre in maniera molto ravvicinata sui personaggi, in modo tale da far essere il giocatore molto vicino alle loro vicende, riuscendoci.
E non importa se poi la camera in seconda persona non funziona proprio perfettamente, ma non propriamente per colpa sua, come vedremo all’interno del gioco vero e proprio. Quando si é di fronte alle cutscene di questo gioco, in quel momento, tutto quello che importa é la verità e la bellezza che comunicano: interiorizzata, rabbiosa, esplosiva, triste e apprensiva ma anche delicata e piena di tatto.
Più luci vere e proprie che si fondono assieme in un insegnamento morale mirabile e altamente realistico. E su questo il pubblico se ne accorgerà sicuramente nelle battute finali dell’avventura principale, dove la scelta della vita di comunità é più importante di tutto e di come ci si debba trovare al posto giusto, anche ipocritamente, per fare la gesta giusta. La tragedia della vita, possiamo dire, in un certo qual modo.
Concentrandosi ancora sul protagonista é davvero una cosa magnifica il suo vederlo muoversi goffamente nel cercare di trasmettere affetto al proprio figlio magari per abbracciarlo. E’ Kratos, é lui, senza dubbio, meno furioso rispetto al passato, ma sempre rigido caratterialmente e talmente liso dalle battaglie mitiche che ha dovuto affrontare e dalla nostalgia che lo attraversa, da essersi molto indurito e quindi credibile nel non riuscire bene ad esternare affetto.
Nella guerra quello che conta é sopravvivere, dice cinicamente al figlio, e questo va magnificamente in contrasto con i suoi gesti, le emozioni che gli si leggono in volto. Tutto credibile nella dimensione di un’odissea interiore piena di emozioni forti e di contrasti ravvisabili che però é scremata bene in un contesto da kolossal cinematografico d’azione di spessore vero.
Il tocco definitivo alla magnificenza degli snodi narrativi, però, viene conferito dal sistema di qte, talmente ben implementato che all’occorrenza diventa un vero e proprio mini sistema di gameplay. Tutte queste caratteristiche diventano quindi un tutt’uno per coinvolgere il giocatore ancora di più nei meccanismi della storia.
Senza voler svelare molto, all’inizio, per far capire la cura con cui sono implementate queste feature, Kratos, in questo caso, il marito, il padre, risulta completamente controllabile ed animato in quanto vivo, quindi subito dopo passa il testimone al figlio che ovviamente é vivo ma non può essere controllato interattivamente pur muovendosi e quindi ecco che il piccolo Atreus va a toccare la salma della madre e moglie, immobile perché morta e non interattiva.
Questo passaggio di testimone tra familiari dall’interazione implicita ed esplicita decrescente, ricalca perfettamente quello che é il portarci, tramite una camera in movimento come quella del piano sequenza e quindi mutevole a farci scoprire piano piano, in maniera giustamente fluida e mutevole di quello che si sta guardando, la morte della compagna di Kratos. Un piccolo viaggio atto a consegnare allo spettatore l’intensità emotiva giusta, perfetta, da manuale. Un prologo con i controfiocchi, una fusione perfetta tra narrativa e interazione che per fortuna non abbandona il giocatore durante il resto del gioco.
Una prova di abilità vera, da consumato, e talentuso autore cinematografico che si approccia con grande intelligenza al medium videoludico, che insomma, non può non far rimanere impressionati, da scoprire e non raccontare per non rovinare tutto quello che verrà dopo, anche in questa rubrica.
Se esiste un altro motivo valido, forse il più grande, per giocare God of War é proprio l’essere coinvolto da questa narrativa senza soluzione di continuità con l’interazione dovuta al qte che porta ad epiche emozioni e a solenni dolori sviscerati perfettamente nella loro ambivalenza legata a input video, audio, e di gameplay.
Ma la narrazione non é solo lavoro di comunità tra storia e interattività ma anche un lavoro di scrittura che, pur mostrando seriamente solo un piccolo vuoto ma non così rilevante da rovinarla seriamente, accostabile a una piccola macchia, sul finale, é davvero da grande sceneggiatura cinematografica di tutto rispetto. In Santa Monica hanno studiato i maestri europei per scrivere una sceneggiatura e fondamentalmente si vede. Nonostante la sua superficie visiva patinata, che potrebbe trarre in inganno dai trailer, il prodotto é infatti per composizione della narrativa quanto di più europeo possa esistere in un gioco americano per cura e profondità.
Faccio in questo caso riferimento al buon Mimir, spalla comica e favolosa (assolutamente il preferito di chi scrive) dell’intera vicenda che in quanto testa parlante é il perfetto contraltare contenutistico di questo gioco della serie, diverso, profondo, sfaccettato, alla testa di Elio di God of war III. Seppur entrambe aprano passaggi fondamentali per andare avanti nella narrazione tramite il bagliore che emettono, sono dicotomiche ed opposte per molti versi e per questo anche complementari.
Per cominciare nel terzo capitolo della saga é Kratos che taglia la testa ad Elio con la forza mentre questo gli chiede di risparmiarlo per tenersi la sua sfarzosa e godereccia vita da divinità, mentre nel secondo caso é proprio Mimir a chiedere a un dubitante, quasi riluttante Kratos di liberarlo da quella vita di prigionia e supplizi detestabile tagliandoli via il capo e scegliendo di morire pur nella flebile speranza di essere resuscitato da una strega.
Proseguendo, il primo inizialmente, prima del fattaccio della decapitazione, può muoversi liberamente e fare quello che gli pare con il pieno appoggio di Zeus, mentre il secondo é imprigionato e fuso a un albero per un diverbio che rimanda a nessun tipo di benestare, con l’altra divinità padrona del pantheon di riferimento: Odino.
Andando quindi al terzo punto, la prima testa, seppur utile, sarà praticamente morta, mentre la seconda resusciterà dando una mano e stemperando la tensione durante le battaglie e distribuendo la sua infinita saggezza tra storie, dubbi e ammende morali. Infine mentre la testa di Elio in termini di luminosità sarà utile da subito nella sua completezza, di quella di Mimir, incompleta, si deve recuperare un occhio per potergli permettere di utilizzare la sua luce per andare avanti in uno snodo fondamentale.
Queste differenze racchiudono insieme quindi tutte le differenze stilistiche e narrative dei due giochi e del vecchio franchise (?) rispetto a quello nuovo. La testa di Elio rappresenta la brutale, immediata e completa da subito, componente visiva e narrativa, fatta di piccoli archi, senza speculazione davvero profonda, se non nel finale, a livello emotivo, che si aprono e chiudono continuamente da divinità a divinità affrontata pur essendo collegate tra loro da un filo rosso che corrisponde alla figura di Zeus, senza velleità e molto leggera, toccando il pulp nelle sue funzioni.
Al contrario quindi la seconda racchiude in sé tutta la profondità narrativa non immediata da vero e proprio kolossal d’azione eliminando il pulp.
Una seconda che si appoggia su un unico grande e molto coeso arco narrativo ad ampio respiro fatto di grande profondità emotiva veicolata anche attraverso le tante ma sempre utili parole e i gesti evocativi, che trova tutta la sua completezza, rimanendo nel frattempo incompleto e voglioso di essere costruito, solo alla fine dell’avventura.
Com’é logico pensare, inoltre, la completezza di Mimir e la sua credibilità deriva anche dal fatto che sia la parte compensativa, come accennato, a livello strutturale di Elio e in questa armonia costruttiva fatta di logica che forma una struttura reale di cui é parte e che é insita in lui, il personaggio trova ulteriore credibilità e divertimento.
Una piccola menzione si meritano inoltre i due grandi colpi di scena del gioco, che lasciano soddisfatti, in quanto perfettamente costruiti, e rispecchianti, anche se in maniera molto convincente e attuale, i cliché della tragedia e dell’epopea mitologica. Di qualunque mitologia e pantheon divino esistente.
Questione di feeling
Chi scrive si aspettava dai trailer visti un feeling decisamente maggiore e molto più fluido e immersivo con la nuova incarnazione delle avventure di Kratos, ma pad alla mano, purtroppo, é probabile che ci si accorga con una certa certezza che non solo la fluidità non é presente a tratti nel battle system ma che proprio é assente evidenziando lacune strutturali importanti.
Prima di scendere nel dettaglio si dovrebbe chiarire una volta per tutte cosa dovrebbe essere un sistema di controllo ben fatto e in caso eccellente in un titolo d’avventura in tempo reale: reazione armonica e il meno possibile pensata una volta che, nel minor tempo possibile si imparano i comandi. Perché mi chiedete? Beh, immersione, immedesimazione e maggior divertimento; e tutto ciò nell’ambito si ottiene tramite il realismo della riproduzione dei movimenti reali della vita di tutti i giorni che sono la fonte primaria di emozione e immersione pura e diretta in linea generale.
Questi movimenti sono fatti di una combinazione azione-reazione. Azione e reazione pad alla mano, che quindi dovrebbe eliminare o limitare il più possibile, il tramite del pensiero sul tasto che si deve premere dalla mente, come se quella azione a schermo la si eseguisse in prima persona. Proprio come se si fosse seriamente quel personaggio che appare a schermo.
Insomma, se si deve pensare mentre si gioca a quale tasto premere, si mette una pausa tra azione e reazione, non molto confacente a dei movimenti credibili reali. Movimenti reali che devono essere implementati in un gioco per farlo essere convincente, immersivo ed emozionante, come detto. Repetita iuvant, i suddetti sono fatti di azione e reazione senza soluzione di continuità (la pausa per pensare), in mezzo.
D’altra parte quando si decide, banalmente, di alzarsi da una sedia non é che si pensa di alzarsi, poi interviene la pausa per elaborare come alzarsi e poi ci si alza: no. Ma si pensa di alzarsi e ci si alza in maniera fluida, compatta tra impulso mentale e azione che segue che si susseguono e si fondono tra di loro nell’immediatezza, senza pausa, senza pensare di volta in volta come alzarsi, senza soluzione di continuità. E in questo senso, avendo un controller a disposizione, esistono diversi metodi per implementare tutto ciò in un videogame.
Per fare un esempio, visto che il sottoscritto ha giocato da poco ed é bello fresco per poterne parlare con precisione e dovizia di particolari, il sistema utilizzato in Bloodborne é praticamente perfetto o quasi in questo senso.
Un pezzo d’antologia di interfaccia per l’interazione con personaggi e ambienti in un videogioco soprattutto appartenente a titoli con forti meccaniche da titolo di avventura tramite il proprio avatar.
Servono dei tasti che replichino i principali e importanti tasti legati all’arma bianca per gli influentissimi combattimenti nel gioco From Sotware? Benissimo, allora i tasti dorsali destri sono i migliori per il ruolo per vari motivi, rimanendo subito impressi o quantomeno imparabili molto in fretta, nella mente del giocatore, che via via li utilizzerà senza dover prima pensarci su, ovviamente, su cosa premere sul controller.
Il primo motivo é la forma allungata di questi bottoni (r1 e r2), che rimanda alla forma allungata delle spade e a tutte le armi bianche in linea generale nel gioco, in secondo luogo molti giocatori sono destrorsi e quindi fanno tutte le azioni più importanti con la mano destra, ergo é giusto posizionare i comandi di una cosa di così vitale importanza a portata delle dita della mano destra.
In terzo luogo, la pesantezza dei tasti. Ovviamente la stessa arma deve essere accomunata dal rimando all’idea comune del tasto dorsale ma per restituire un feeling ordinato allora l’attacco leggero si va a eseguire con un tasto che si preme in maniera molto morbida mentre quello pesante é affidato al grilletto, da dover schiacciare con più forza, in quanto, appunto più pesante da premere.
Non ci sarebbe infine da dirlo ma il compito di un videogioco é quello di avvicinare l’utenza per quanto possibile, anche in base alla filosofia che sposa, quindi gli attacchi leggeri sono naturalmente più efficienti di quelli pesanti e posti in un tasto più vicino alla presenza sia visiva che di ordine in fila sul pad in modo da essere intuitivamente preferito rispetto al secondo o comunque spesso favorito durante l’avventura. Metodo fondamentale, molto intuitivo, per aiutare il giocatore a cavarsi fuori dagli impicci in un gioco di una certa durezza come Bloodborne.
Detto questo, i tasti a bottone, circolari e non allungati, che ricordano dei polpastrelli liberi, e magari senza nulla in mano, rimandano, anche per contrasto con quelli allungati, ad essere dei tasti non da usare per l’azione dell’arma principale (e neanche per le azioni di quella secondaria e meno utilizzata, dislocata giustamente sul primo dorsale sinistro e sulla mano sinistra del cacciatore) ma, visto la loro posizione frontale e molto usata in tutti i giochi e nei menù di navigazione, per altro di importante.
Nel caso di Bloodborne un tasto frontale deputato ad armi terziarie esiste, ma essendo l’unico deputato ad azioni di offesa con arma in mano tra gli altri e comunque anche immediato come gli stessi, non turba l’identità di gruppo e quindi di conseguenza l’accessibilità immediata a identificarli come questi bottoni per altre azioni importanti non legate alle armi.
Ed ecco quindi che il tasto croce, premutissimo sulla pulsantiera per andare avanti nei menù di accesso imprescindibile in game, per esempio, diventa il tasto fondamentale per rotolare e sfuggire agli assalti nemici, o utile per schivare e vincere le battaglie con gli stessi e proseguire, per superare un ostacolo ambientale.
Tutto ciò, quindi, tramite tutti questi input e collegamenti mentali rimanda nel gioco From Software a una comprensione dei comandi molto veloce in principio all’approdo a Yarnham, e a un utilizzo automatizzato da parte del giocatore degli stessi, senza pensarci, andando avanti nell’avventura.
Un’armonia che va a formare tra il giocatore e il proprio avatar una coesione perfetta, dove il secondo diventa un’estensione naturale e inesorabilmente bella e coinvolgente del primo. Un tocco d’arte insomma.
Da questa spontaneità data dall’apprendimento facile, veloce, e naturale, quindi, si possono aggiungere, senza esagerare, nel limite della percezione semplice del movimento del proprio corpo, che si riflette su quella del modello del nostro avatar, che rimanda a una sensazione di poca varietà dei movimenti complicatissimi che compiamo ogni giorno, altri tasti limitrofi e utili. Mezzi di interazione come il pulsante non troppo utilizzato per fare delle azioni non troppo consuete in gioco e riflessive come aprire un menù che rispecchia una sacca degli oggetti.
In questo caso ci sta perfettamente che tra azione e reazione esista una pausa, perché nella normalità delle cose, quando si guarda in molti casi nella propria borsa, si deve cercare in linea generale, l’oggetto desiderato nel caos interno della stessa, e mettere ordine mentale per trovarlo dopo aver rovistato.
Passiamo quindi al sistema di controllo di God of War, che purtroppo é inevitabilmente macchinoso, complesso, confuso e non sufficiente soprattutto alla luce dell’importanza del titolo, che costringe più volte a pensare cosa premere sulla pulsantiera in maniera frustrante e poco immersiva e molto accentuata nelle sessioni di combattimento, che sono uno dei fulcri del titolo.
Tecnicamente esiste un certo caos concettuale nella implementazione dei comandi in questo senso, inaspriti soprattutto dall’urgenza di attaccare nelle battaglie, in termini di battle system, rispetto a una fase esplorativa. Battle system che adesso si andrà ad esplicare.
Sui dorsali, principalmente deputati agli attacchi con le armi, c’é in mezzo il tasto L1 che non serve per lanciare l’ascia e quindi attaccare ma per avvicinare soprattutto prima la telecamera libera utile per cercare il bersaglio più congeniale al momento. Quindi per feeling un tasto così caratteristico e importante nelle battaglie, con nessuna immediatezza d’attacco pur facendo parte di un meccanismo di offesa ed esplorativo in diretta controtendenza con tutti gli altri dorsali per nulla esplorativi e molto immediati sembra proprio un estraneo là in mezzo, cozza con tutti gli altri compagni di reparto, facendo decidere alla mente che lui in quel gruppo non deve proprio starci, che si tratta di un errore, che non deve esistere là in mezzo in maniera naturale di concezione ottimale di azione e reazione.
Il tutto é potenziato in maniera negativa nella percezione del suddetto tasto anche dalla voglia giusta di base di godersi un titolo da hype al massimo e con l’assunto che non sia possibile che in una produzione così esista un errore simile da accettare.
Ovviamente questo porta a rimuoverlo di volta in volta dalla mente portando il giocatore, una volta che vuole riutilizzarlo, a cercarlo, con una pausa di riflessione, sulla pulsantiera.
Molto frustrante, poco immersivo e che porta durante le battaglie, nel tempo, a non utilizzarlo molto spesso o addirittura a non utilizzarlo più per affaticamento mentale e spezzettamento artificioso dell’azione, troncando il titolo di una delle peculiarità di battaglia più distintive come il lancio dell’ascia in battaglia.
Ma sono i bottoni frontali il vero problema in negativo della mappatura dei tasti nel sistema di battaglia. Un po’ da esplorazione e raccolta ambientale di vita e Furia di Sparta utile per continuare a combattere, un po’ utili per attaccare direttamente con un’arma importantissima come l’arco di Atreus, che dovrebbe stare su un dorsale, un po’ deputati per recuperare l’ascia che mischia il recupero degli oggetti in giro e le dinamiche di combattimento con l’arma deputate ai dorsali. Insomma: un gran caos di tasti messi assieme senza identità di gruppo precisa e facilmente accessibile che lascia spesso interdetti se non si decide arbitrariamente di eliminarne alcuni per poter avere un ordine mentale in cui i tasti d’azione con l’arma sono i dorsali mentre quelli deputati all’azione libera da armi sono quelli frontali.
Durante le 40 ore di gioco che sono servite per terminare l’avventura in maniera abbastanza completa per farci un approfondimento dettagliato, il sottoscritto si é trovato ad eliminare di sana pianta o quasi, il tasto deputato al lancio dell’ascia, e quello legato al suo recupero e ha avuto difficoltà a ricordare con continuità soddisfacente e immediata dove fosse posizionato l’importantissimo tasto dell’arco.
La voglia inoltre, di imparare bene questi tasti nonostante tutto, ha portato a un rigetto proprio legato al voler imparare, arraggiandosi con quello che era facilmente accessibile (rotolata, dorsali destri per l’arma base, un attacco speciale e l’arco di Atreus e quello del recupero vita per necessità indotta da limiti sistemici), con buona pace anche di quelle che sono le dinamiche più desuete della produzione come le mosse speciali, in buona varietà, provenienti dall’albero delle abilità.
Purtroppo però non é finita qua e in maniera amara bisogna anche parlare del controllo importantissimo dell’arena di combattimento, anch’esso deficitario. Bene, il buon Kratos, avendo una camera in seconda persona non può avere di base una visione completa del terreno di scontro per ovvia scelta artistica legata all’iter sull’intensità emotiva e materiale che il gioco vuole trasmettere, oltre che all’intimità di una storia molto privata. In questo caso, quindi, cosa ci fanno le freccette direzionali ad indicare dove sono i nemici che non possono apparire a schermo e tra l’altro posizionate e mimetizzate in quel modo, visto che dovrebbero essere fondamentali nell’economia di uno scontro e nella sua potenziale, fluente e bellissima spettacolarità?
Nello specifico non solo queste freccette non sono in linea d’aria visiva con il nemico che si sta attaccando, risultando già solo da questo particolare difficilmente accessibili, ma risultano attaccate e sovrapposte molto in basso a questa, sul corpo del protagonista, in vita per la precisione, riempiendosi e svuotandosi di colori che francamente lasciano interdetti: il bianco e il rosso, i colori principali dello stesso Kratos, confondendosi e nascondendosi ancora di più dallo scatenare il giusto e armonico input visivo di avvertimento.
Insomma, l’effetto finale é quello legato al fatto che capita spesso che ci si perda di vista queste freccette, e che quindi si prenda di lato o da dietro, sistematicamente qualche attacco, non facendo essere il giocatore, in maniera artificiosamente obbligata, mai padrone della situazione e mettendogli una certa apprensione perché qualcuno prima o poi attaccherà nella sua mente.
Attacco di cui non si conosce la provenienza da quale lato, visto che si dovrebbe scordare molto spesso di controllare in basso.
Meccanica mentale che contribuisce, inoltre, a offuscargli le idee e a peggiorare la situazione sui tasti da premere per sfruttare il battle system, visto che risulta alquanto sgradevole.
Diciamo che con un po’ di pratica si riesce a limitare questo problema, e che con l’aumentare della forza del protagonista tramite il crafting ci si deve curare drasticamente di meno dei nemici non visibili perché i loro colpi saranno sempre meno fatali e danneggianti, ma l’ulteriore risultato e l’avere a che fare comunque, ancora, con delle battaglie spezzettate dove ci si perde sempre qualcosa e dove gli occhi ballonzolano, interrompendo la fluidità dell’azione in base a come si sposta lo sguardo.
Insomma, un ulteriore inspessimento dello spezzatino delle battaglie evitabile tramite, visto che il gioco é un coacervo di meccaniche prese da altri brand, se solo le frecce invece di essere presenti, fossero state sostituite dall’apparizione di un tasto in sovrimpressione durante un attacco avversario non visibile o difficile da scorgere (il quadrato, a sinistra dei tasti frontali, sarebbe stato ideale) per permettere automaticamente a Kratos di girarsi e accoppare con la mano nuda il malcapitato di turno muovendo il braccio sinistro, non rifacendosi quindi ai tasti dorsali con in mano armi e scudo.
Inserire il tasto che compare nell’ambiente come se Kratos sentisse uno spostamento d’aria dell’arma avversaria prima di sferrare il colpo, é fondamentale per l’economia del titolo. Fortuna che tramite i movimenti fluidi e le vibrazioni del controller si riesce almeno ad assaporare la pienezza dei colpi inferti dal protagonista agli avversari.
Un’azione molto simile alle battaglie di Batman Arkham direte. Sì, ok, ma la sua poca originalità e il suo fatto di essere mutuata non é di interesse primario in un titolo meltin pot e anzi coerente tra le altre mutuate, visto oltretutto che risulta l’unica possibile e più eloquente da inserire in questo senso nel gioco per cercare di avvantaggiare la giusta fluidità delle battaglie, la spettacolarità che ne sarebbe derivata e il vero controllo dell’arena di combattimento.
Per non parlare dell’integrazione nello stesso meccanismo che coinvolge le freccette, del richiamo a voce di personaggi come Mimir o Atreus durante le battaglie, messo a disposizione per avvertire che qualcuno che non é visibile sta attaccando. Un sistema talmente vacuo (“dietro di te” o ” a destra”). talmente poco pratico nel far eseguire al giocatore un movimento verticale con gli occhi per guardare gli indicatori in basso, che lancia un impulso “utile” solo per fare un movimento macchinoso e richiedente troppo tempo con l’analogico per voltarsi o per far pensare lo stesso a cosa premere per una frazione di secondo di troppo con il d-pad.
D-pad che come mansione generale di riferimento é poco chiaro (tasti per prendere le armi, tasti per riporle e tasti per voltarsi indietro. Non come i dorsali che servono tutti o quasi a eseguire attacchi diretti con le armi facendoli riconoscere come il gruppo di tasti per “gli attacchi diretti con le armi” favorendo l’intuizione e la fluidità).
In questo senso, inoltre, con un battle system del genere, le difficoltà più alte del gioco, tra cui quella molto curiosa de il “vero God of War” che aggiunge qualcosa di interessante come la mutazione dinamica dei pattern di attacco dei nemici, risultano di già di principio, immaginandosi quello che potrebbe essere, inaccessibili per ovvi motivi, levando rigiocabilità, ricchezza e profondità al titolo.
Per ora la scoperta, tra grandi pregi e grandi difetti di God of War finisce qua. Si avrà modo di continuare tra una settimana, nella speranza che non abbiate in antipatia il buon Kratos dopo la lettura di questa prima trance, ma solo un sentimento almeno un po’ più critico per gli errori che sono stati fatti nei suoi confronti.