Ghost Song è soltanto l’ennesimo metroidvania sviluppato da una software house indipendente? Decisamente no. Si potrebbe al contrario dire che Ghost Song sia proprio il metroidvania che non ti aspetti. Intendiamoci sin da subito: le citazioni e le “fonti d’ispirazione” sono innumerevoli, evidenti e in molti casi quasi smaccate. Ma dietro a tutta questa facciata di emulazione si nascondono varie ottime idee, per nulla scontate. Essenzialmente per questo motivo ci siamo convinti a proporre questa recensione, proprio perché a volte, non tutto ciò che è simile a qualcosa di celebre e famoso debba per forza essere relegato a pallida ed insipida imitazione. Vediamo quindi di presentarvi questo Ghost Song partendo dagli elementi che per primi ci hanno colpito, le scelte di design ed il protagonista.
Antieroe
Samus Aran, la celebre icona di Metroid, è un’eroina quasi perfetta. Cacciatrice di taglie da una parte, ma anche paladina del bene, sempre pronta a lottare per ideali quali pace e giustizia. Tutto molto bello e molto nobile, ma in Ghost Song la prospettiva cambia radicalmente. Ad inizio gioco non è ben chiaro chi o cosa sia realmente siamo. Il titolo del gioco, Ghost Song, ed il nostro nome, “Deadsuit”, ci suggeriscono che abbiamo a che fare con un contesto molto più cupo e drammatico. A dire il vero gli altri NPC del gioco si riferiranno a noi non come Deadsuit ma con l’appellativo di Little Blue, in virtù del colore azzurrino della corazza esterna dell’esoscheletro-tuta che, di fatto, ci costituisce. Deadsuit è peraltro ricoperta di brandelli di un tessuto non definito, probabilmente i resti di una divisa, un’uniforme, un equipaggiamento ormai completamente deterioratosi. Di pari passo con queste fattezze emaciate, anche nei sottotitoli che rappresentano i pensieri del nostro protagonista emergeranno tutti i dubbi, le incertezze e l’angoscia di non conoscere, o non ricordare, chi si è o, ancor meglio, chi si era.
Dark side of the moon
Allargando il quadro all’ambiente di gioco, ci troviamo su una misteriosa luna di Lorian che, per cause ad inizio gioco a noi ignote, attira astronavi facendole precipitare sulla sua superficie, senza dare agli occupanti scampati all’atterraggio di fortuna alcuna possibilità di poter riprendere il viaggio. Ecco, dunque, che il contesto di Lorian si rivela essere il perfetto scenario di un horror fantascientifico. Mostri molto più simili ad orridi mutanti che a creature aliene, personaggi disperati, che cercano di sopravvivere semplicemente trascinandosi attraverso la contesa delle pochissime risorse disponibili. Gli NPC, i personaggi non giocabili, che incontrerete avranno tutti questo denominatore comune, ma in particolare un gruppo di essi risulterà determinante per la vostra avventura. Sono i superstiti di una grossa nave spaziale, il Gambler, anch’essa vittima della luna che li ha attratti. Imbattutici quasi per caso nel loro “capo”, disorientata quanto loro, Deadsuit fornirà l’aiuto necessario per avere una chance di sopravvivenza provando a recuperare dei preziosi componenti per riparare la nave in avaria.
Esigenze precise
Proprio questa operazione di recupero ci porterà a visitare tutti gli anfratti della superficie e del sottosuolo di questa luna. Pochissime saranno le zone con strutture tecnologiche. Molto spesso ci troveremo infatti in luoghi tetri, lugubri, più simili ad un horror puro che ad un’ambientazione Sci-Fi. Aree strapiene di lapidi o di cadaveri semisepolti, teschi appesi a catene e molto altro ancora. Pur senza picchi d’originalità assolute, la diversificazione è molto ben studiata, così come la conformazione ed il level design di ciascuna specifica zona.
Come detto, il nostro scopo sarà quello di reperire e riportare cinque preziosi componenti al Gambler. Al fine di raggiungere queste preziose risorse, si finirà spesso in prossimità del boss di turno, ma in molti casi non sarà strettamente necessario affrontarlo e sconfiggerlo per impossessarsi del componente. In questo la storia e gli accadimenti narrati si fondono e si intersecano perfettamente con la struttura di gioco e, per l’appunto, il level design stesso. L’obbiettivo principale è recuperare componenti essenziali; per avere una chance di sopravvivenza. Non far piazza pulita di potenziali minacce per l’universo. In altre parole: salvare la pelle, non la galassia.
Sapienti intrecci
Questo aspetto, seppur non appariscente, costituisce forse l’elemento più distintivo e peculiare, in positivo, di questa produzione. L’ordine di recupero dei componenti è suggerito, ma non strettamente rigido. Allo stesso modo la storia è oltretutto molto meno lineare di quel che ci si potrebbe sospettare. Sono presenti anche alcune side-quest, che ci porteranno ad imbatterci in ulteriori personaggi e altrettanti temibili avversari. Ma soprattutto scopriremo nuovi retroscena, nuovi dettagli che si incastreranno perfettamente nel filone narrativo principale.
Sempre in tema di coerenza anche il comparto sonoro si fonde perfettamente con tutti gli altri elementi. Musiche e soronità perfettamente calzanti. Note di pianoforte ci accompagneranno nei momenti più toccanti ed introspettivi. Quando invece visiteremo le zone più terrorizzanti; improvvisi strepitii ed urla agghiaccianti ci faranno trasalire di continuo. Gli effetti sonori sono invece soltanto di un livello discreto, pur assolvendo adeguatamente al loro compito.
Dove avrò già visto questa posa seduta?
Un racconto uguale e diverso allo stesso tempo
Tornando alla storia, senza spoilerare nulla, il discriminante tra i due finali del gioco sarà proprio l’aver visitato o meno uno specifico punto della mappa. Intendiamoci, il nostro “destino” sarà sempre uguale, ma avremo una maggior consapevolezza dei retroscena e delle storie dei co-protagonisti. Aggiungiamo infine a riguardo che la miglior chiave interpretativa della storia ci verrà fornita solo se entreremo in possesso di uno speciale artefatto chiamato “Pebble of Perspective”.
Infine, una nota a parte, importante per quanto concerne la storia, riguarda la mancata regionalizzazione in italiano. Le tracce vocali sono molto brevi, testi e dialoghi non si dilungano mai. Tuttavia, in alcuni passaggi criptici, l’inglese utilizzato risulta di non facilissima comprensione per chi non ne possiede una più che adeguata conoscenza. Il rischio insomma è quello di perdere parecchi dettagli, sfumature, che tuttavia costituiscono gli aspetti più notevoli degli avvenimenti narrati.
Coerenza, coerenza e coerenza
Soffermiamoci ora sull’aspetto prettamente ludico, anch’esso meritevole di analisi quanto la storia e la componente artistica. Come spiegato il nostro personaggio è una sorta di “relitto” e coerentemente a ciò le sue movenze, soprattutto nelle fasi iniziali, non possono intuibilmente certo brillare per agilità e reattività. Tutto rimane comunque ampiamente giocabile. Le collisioni sono gestite in maniera ottimale, così come la distribuzione dei comandi. Qualche rallentamento nelle fasi di gioco è presente saltuariamente, inoltre, accedendo alle aree più vaste della mappa, occorre sopportare un mezzo secondo di “buio tecnico” per consentire il caricamento della zona successiva. Questo è quello che abbiamo rilevato nella versione da noi giocata, su Switch. È possibile che su hardware più performanti questo piccoli handicap non sussistano.
Ingredienti più o meno tipici
Armi ed equipaggiamenti sono molto ben studiati. Pur non essendo numerosissimi sono ben calibrati e differenziati. Oltretutto per molti di essi, i moduli dell’arma secondaria e della tuta non saranno liberamente utilizzabili, bensì dovranno essere assegnati ad una sorta di slot, in numero limitato ed incrementabili solo salendo di livello. Particolare interessanti è che i moduli della tuta potranno essere sostituiti soltanto disattivando la Deadsuit stessa. A motore spento, in poche parole. Occorre però fare i conti col fatto che accedere a questa schermata di configurazione non mette il gioco in pausa e ci lascerà in balia di eventuali minacce nelle vicinane. Come è facile immaginare, durante uno scontro con un boss sarà praticamente impossibile mettersi ad armeggiare con le configurazioni della propria tuta.
Sempre in tema di armi, principale, secondaria e speciale dovranno tutte soggiacere al fenomeno del surriscaldamento, handicap evidenziato in tempo reale anche a schermo da una bella colorazione rossoarancio incandescente della componente sovrautilizzata. Tutti i colpi poi avranno una diversa efficacia inversamente proporzionale alla distanza che dovranno coprire prima dell’impatto. Inutile dire che tutti questi aspetti renderanno ogni combattimento estremamente tecnico, ma anche appagante.
È inoltre presente un sistema di level-up del personaggio, attivabile con quella che di fatto è la valuta del gioco: il Nanogel. Con esso sarà possibile sia acquistare armi e oggetti perso gli shop (uno ufficiale ed uno segreto) sia come già detto per salire di livello, prediligendo la salute, la capacità offensiva e così via. Dove è possibile reperire questo fantomatico Nanogel? In due modi. Uccidendo nemici o recuperando dei cluster, tipicamente nascosti nelle varie aree. A tal proposito ogni volta che verremo uccisi “lasceremo” un cospicuo quantitativo di Nanogel esattamente nel punto della nostra dipartita. Proprio come nei titoli della serie di Dark Souls, con la “vita successiva” potremo andare a riprenderceli, sempre se nel frattempo non verremo sopraffatti una seconda volta.
Fisiologicamente impegnativo
La difficoltà è consistente ed anche nella modalità più morbida avrete in diversi punti non pochi grattacapi. Il gioco di per sé è poco lineare, quindi potreste anche correre il rischio di ritrovarvi in aree che sono troppo impegnative per il livello attuale del protagonista. I punti di salvataggio sono mediamente scarsi, così come i teletrasporti. A far da contrappeso a tutto ciò resta il fatto che, con un po’ di farming, facendo salire di livello Deadsuit, potrete darle un piccolo sostegno nelle sfide più ostiche. La difficoltà, unita ad una mappa davvero grande e complessa e ad un inevitabile, ma mai stucchevole, backtracking vanno a garantire una longevità di tutto rispetto. Per vedere la fine del gioco saranno necessarie non meno di una quindicina di ore, al netto di eventuali game over e sezioni da rifare. Per accumulare anche un consistente numero di segretini e segretucci, se ne avrete voglia e pazienza, si sforeranno tranquillamente le venti ore.
Rimandi e riferimenti
Al termine di questo racconto appare quindi evidente come i richiami a Metroid siano sì evidenti, ma non certo i soli. Ad un attento osservatore sono molti i titoli che hanno sicuramente ispirato la produzione di questo Ghost Song. Già detto di Dark Souls, restando invece nello specifico ambito dei metroidvania, parte del Level Design può ricordare Hollow Knight. La storia, nella sua ambientazione, mistero, crudezza e senso di solitudine può ricondurre The Swapper (se non lo conoscete, con tutto il cuore, recuperatelo. Un metroidvania ad enigmi davvero unico). Infine, molte armi sono quasi un tributo d’onore ai vari Castlevania. Esempio? Una ruota metallica dentata che, a fine gittata, ritorna in direzione del protagonista. Come non pensare all’arma speciale della “croce” usata dai vari Belmont?
Conclusione
Alla luce di questi rimandi, gli elementi, le scelte artistiche, seppur non originali, sono tutte di ottimo livello e coerenti tra loro. Le idee che lo diversificano dalla concorrenza sono comunque presenti, donando a Ghost Song un’identità propria e legittimandolo pienamente come una produzione decisamente valida. In ultimo ma non ultimo, il gioco è in definitiva divertente, appagante e sorretto da una storia di assoluto livello. Per queste ragioni ci sentiamo inclini nel valutare Ghost Song con un occhio benevolo, assegnandoli quel “mezzopuntoinpiù” che non deve essere visto come una mera concessione. Bensì come un riconoscimento, un plauso, un attestato di stima verso gli autori, che indubbiamente conoscono molto bene, e amano, come noi, il genere metroidvania.